Dopo le anticipazioni di stampa dei giorni scorsi, il presidente dei commercialisti lancia l'allarme sul nuovo redditometro. "Si rischia di snaturarlo e di condannarlo al fallimento"

 

“Attenzione a non snaturare uno strumento condivisibile come il redditometro, che ormai da anni chiediamo di rafforzare, in una sorta di “studi di settore per famiglie” che, così come quelli per imprese e lavoratori autonomi, non avrebbe mai la credibilità e la condivisione sociale necessaria per centrare l’importante obiettivo della lotta all’evasione fiscale di massa”.

È il monito lanciato da Claudio Siciliotti, Presidente del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, a fronte delle anticipazioni di stampa sulla forma che sta prendendo il “nuovo” redditometro nelle elaborazioni affidate ai tecnici dell’Agenzia delle Entrate.

In particolare, secondo i commercialisti, non convince l’ipotesi che, per il calcolo del reddito presunto da redditometro, possano venire applicati “coefficienti di trasformazione” anche per le spese di natura monetaria, sulla base di valutazioni concernenti la natura più o meno voluttuaria della spesa, la composizione del nucleo familiare e la sua collocazione geografica.

A titolo di esempio, 100 euro spesi per una beauty farm potrebbero implicare non 100, bensì 200, 300 o 400 euro di reddito presunto, a seconda dei casi.

“Non ci siamo proprio – afferma Siciliotti – Nel redditometro i coefficienti devono entrare in gioco solo per quantificare monetariamente le presumibili spese di gestione dei beni patrimoniali di cui il contribuente ha la disponibilità: ad esempio per trasformare in spesa monetaria dell’anno, a sua volta trasformabile in reddito presunto a fronte di detta uscita, le presumibili spese di gestione di un appartamento, di un’autovettura o di una barca che il contribuente utilizza”.

“Per quanto riguarda invece le spese monetarie non bisogna andare oltre la chiara e semplice presunzione di 100 euro spesi uguale 100 euro entrati – continua Siciliotti – Diversamente, si ottiene solo di rendere astruso e complesso, come è per gli studi di settore, uno strumento che proprio nella sua immediatezza ha la propria caratteristica, indebolendone la forza evocativa nella pubblica opinione e la forza presuntiva nel contenzioso avanti al giudice”.

Da questo punto di vista, anche la scelta del legislatore di abbassare dal 25% al 20% lo scostamento reddituale che rende applicabile la presunzione, rendendo per altro sufficiente lo scostamento su un solo anno (e non più su almeno due), testimonia, per i commercialisti, “come una volta ancora il bisogno di gettito dell’Erario stia prevalendo sulla lucidità”.

“Il rischio combinato di un ricorso a controvertibili coefficienti di trasformazione anche laddove non servono (perché c’è già il dato oggettivo della spesa monetaria sostenuta) e di una riduzione dei margini entro i quali gli scostamenti tra reddito dichiarato e reddito presunto fanno scattare il meccanismo accertativo, è quello  – prosegue Siciliotti -  di togliere efficacia al redditometro e di esporlo poi in sede contenziosa a numerose vittorie da parte dei contribuenti, laddove aggrediti ingiustamente o per redditi non verosimili”.

“Sin dai primi mesi del 2008 – afferma Siciliotti – abbiamo con forza sostenuto la necessità di dare una nuova centralità al redditometro nella lotta all’evasione fiscale di massa, quando tutti continuavano ad affidarsi agli studi di settore, utili ma non decisivi. Proprio perché crediamo nelle potenzialità di questo strumento, invitiamo il legislatore e l’Agenzia delle Entrate a confrontarsi con noi e a non gettare le basi per il suo fallimento in partenza, trasformandolo in una sorta di studi di settore per famiglie con valenza di presunzione legale, cosa che neppure gli studi di settore per le imprese sono mai stati. Altrimenti, nel volgere di pochi anni, quello che potrebbe divenire l’architrave della giustizia sociale, verrà percepito come l’ennesimo strumento di oppressione fiscale e non risolverà nulla di nulla dei problemi di questo Paese”.

Negli scorsi anni, i commercialisti hanno più volte ripetuto che si sarebbe dovuto rimettere al centro il redditometro rinnovandolo nella individuazione delle spese idonee a costituire indizio di capacità contributiva, migliorandolo nel calcolo dei coefficienti necessari per monetizzare le presumibili spese di gestione sostenute dal contribuente per il possesso di beni patrimoniali e rendendolo idoneo ad un uso più massificato, grazie alle possibilità offerte dal progresso tecnologico che consentono incroci di dati disponibili nell’anagrafe tributaria un tempo non ipotizzabili.

Secondo i commercialisti, un redditometro così concepito può essere per lo Stato uno strumento non soltanto valido dal punto di vista tecnico, ma anche accettabile dal punto di vista del rapporto emotivo con il contribuente e tra i cittadini.

Per i commercialisti, infatti, il redditometro ha il pregio di applicarsi democraticamente a tutti, nel segno della coesione sociale (e non soltanto ai titolari di talune tipologie di reddito, nel segno della contrapposizione sociale) e di presumere l’esistenza di redditi non dichiarati sulla base della evidenza empirica del tenore di vita di quel medesimo contribuente.

“Dopo le iniziali diffidenze che sempre accompagnano le idee innovative- conclude Siciliotti - il ritorno al redditometro è stato sposato da tutti, Agenzia delle Entrate e Governo in primis. Se però venissero confermati gli orientamenti in itinere su presupposti di applicazione e contenuti di calcolo del “nuovo” redditometro, si rischierebbe di distruggerne velocemente l’efficacia, la quale risiede anzitutto nella condivisione della sua credibilità da parte degli contribuenti in ragione della sua semplicità ed oggettività”.

 


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